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Il programma del fascismo spagnolo esposto dal suo capo Antonio Primo de Rivera
Sopprimere i separatismi locali, i partiti e la lotta di classe. Edificare lo Stato sulla famiglia, sul municipio, sui sindacati. L’irradiazione mussoliniana
Madrid, aprile
È difficile, quando si ha un telefono sul tavolo, resistere alla tentazione di disturbare con uno squillo, talvolta importuno, ma prezioso per un giornalista, un alto personaggio del momento, col quale fare, così di punto in bianco e senza preavviso, una ciarla di attualità. Difficile, sopratutto, quando è in discussione l’avvenire immediato della Spagna; paese che nei prossimi messi, forse nelle prossime settimane, dovrà decidere il suo destino; e quando l’interpellato non è un graduato della politica parlamentare, carico di passato, legato da convenienze e da convenzioni, e tenuto il più sovente a «parler pour ne rien dire», ma un uomo di cuore, un giovane buono e vibrante di idealismo, uno spirito eletto, un nobile secondo le migliori tradizioni della razza e della civiltà castigliana, quale José Antonio Primo de Rivera, figlio primogenito del Presidente del Direttorio, avvocato dal provato talento e deputato indipendente alle Cortes, a soli trent’anni.
Contro la destra e la sinistra
La qualifica, che egli si è data, di «indipendente», in questa Spagna dubbiosa fra opposte concezioni sociali e politiche, e alla quale s’offrono da un lato e dall’altro le formule rigide e viete di destra e sinistra, è tutto un programma, –Negativo. (Destò sorpresa il fatto che, poco dopo l’elezione, il figlio del dittatore scegliesse alle Cortes uno scagno situato in un luogo neutro, lontano dal blocco delle destre e piuttosto vicino al settore socialista. Primo de Rivera lascia volentieri al gruppetto dei carlisti e degli alfonsini e al gruppo economico degli agrari la difesa degli interessi terrieri e il ruolo di avvocato del diavolo nei confronti della opera riformatrice della Repubblica). Per conoscere, ora, la parte positiva del suo programma ed i caratteri distintivi del movimento fascista che egli dirige, l’ho disturbato nella sua tranquilla casa di Xeres, a mille chilometri di qui.
Un’intervista telefonica prescinde dagli elementi coloristici che, adornando il dialogo, ne appesantiscono talvolta lo sviluppo. Non posso tuttavia non accennare alla personalità di Primo de Rivera, che già conosco da Madrid. Fisicamente, la sua somiglianza col padre è straordinaria; appena un sorridere più femmineo, qualche cosa di più dolce nello sguardo, che è da attribuire anche alla età, una fronte ampia e serena, che dice raccoglimento, elevazione spirituale, tenacia e dedizione a una causa, laddove nell’insigne «caudillo» lo sguardo e la espressione servabano il duro carattere militaresco; ecco il tratto distintivo che cercavo, ecco ciò che il mio interlocutore non ha; il tono, inconfondibile nel padre, del tradizionale generale spagnolo, dell’uomo di azione, di prestigio e di decisione, se anche dalle idee semplici e schematiche. Primo de Rivera ha una preparazione civile, una cultura di cui il padre mancava. Ciò che il defunto marchese d’Estella «vedeva» con l’intuito e la sensatezza approssimativa del soldato si definisce nella mente del suo erede in proporzioni chiare e precise. Da ciò anche una minore efficacia di mezzi di espressione, ostacolati da un temperamento scrupoloso e d’intuito fulmineo, il che non toglie che Primo de Rivera sia persona preparatissima e possa costituire un uomo di governo.
Non posso, dunque, descriver l’«ambiente» del colloquio; non vedo, ma mi immagino, il «cortijo» xeresiano del giovane deputato, il grato e soffice ambiente della campagna andalusa, fra le spire malinconiche e melodiosissime del «cante jondo», che si perdono laggiù lontano, su uno sfondo di oliveti nodosi e di vigneti; vita fatta di passione e di fatalismo, impastata di misticismo un po’ sensuale e di una cavalleria che non è quella delle leggende medievali nordiche. Vedo il marchese d’Estella così, fra i contadini che lo idolatrano, fra i paesani che credono in lui, nel seno della famiglia che lo adora, proietta la sua figura nobile e gentile su di un paesaggio di fosca tragedia sociale; vedo e temo… Sarà il giovane patriota, l’iniziatore del movimento che si propone di redimere la Spagna dalla tirannia delle Camere del Lavoro alla altezza del compito che la sua giovanile figura aureola di già un fascino d’epopea romantica? Ogni paese ha i suoi abiti psicologici e la sua idiosincrasia, e forse ciò che a me pare tale da ispirare delle riserve sul terreno pratico, voglio dire la finezza aristocratica di questo capo ed il suo accento di suprema distinzione in contrasto con la rude scorza del padre, non è un «handicap» nella terra di Santa Teresa; ricordiamo che qui, in questo paese molle per gloriosa vecchiaia, che ebbe la sua epoca di maggiore splendore quando tutto il resto dell’Europa aveva ancora da nascere alla storia, la stessa violenza facinorosa è di rado cieca. E male mostra di capire il temperamento locale lo straniero che osservando uno scrupolo improvviso in una turba d’incendiari corre a telegrafare al suo giornale la parola «operetta».
Paesaggio di tragedia sociale
Ci consentirà il giovane capo delle «Falangi spagnole» [sic], movimento che ha avuto i suoi martiri e che nella sola Madrid ha offerto il sacrificio di numerose vite, di annotare il contrasto fra la sua apparente timidezza, frutto forse dell’austerità della vita e l’energia ed il coraggio di cui egli stesso ha dato prova scendendo in piazza ogni volta che, in questi tragici albori d’una reazione nazionale, uno dei suoi era stato oggetto di minacce o di aggressioni. Contrasto che mette in rilievo la sua fermezza spirituale. Solo, senza armi, Primo de Rivera ha fatto la sua propaganda elettorale in remoti villaggi dominati dal comunismo e dell’anarchia; pochi giorni fa la sua figura ascetica appariva in mezzo alla battaglia che fu provocata a un crocevia di Madrid dal solito gruppetto di «giovani socialisti», che aggredì e assassinò di proposito deliberato e senza la minima provocazione il capo dei rivenditori dell’organo delle «Falangi» [sic], F. E.
«Guardare la Spagna di fronte»
Ed è ora venuto il tempo, mi pare, di dar la parola al personaggio che vi ho così sommariamente presentato. Egli ha risposto con grande amabilità alla mia chiamata, accedendo di buon grado al desiderio espressogli di una intervista.
— Il nostro programma è semplice –mi dice–; consiste nel sopprimere i tre fattori di disgregazione della Spagna di oggi: i separatismi locali, gli antagonismi fra i partiti e la lotta di classe. Di queste tre forze negative, voi Italiani conoscete la ultima; non la prima, che resta, pur troppo, un nostro privilegio. Il nostro comune amico Giménez Caballero ha parlato della Repubblica «come affare catalano»; potremmo dire, anche tenendoci in guardia dalle definizioni troppo assolute, che il movimento rivoluzionario spagnolo si è distinto da quelli analoghi svoltisi con grande anticipo negli altri Paesi di Europa che ci tramandano con ritardo le loro mode, per il suo carattere separatista e localista. Dalla rivoluzione francese in poi, gli ideali liberali sono stati sempre attuati attraverso un’opera di unificazione e si è rimproverato perfino al liberalismo politico del secolo decimonono di essere, per essenza, accentratore. La nostra Repubblica doveva avere il triste vanto di incoraggiare il catalanismo, fenomeno regressivo e, direi, medievalistico.
— In che si differenzia –domando– il vostro movimento dagli altri partiti politici spagnoli?
— In questo, caro signore: che mentre tali partiti si ostinano a guardare la Spagna da un solo punto di vista, cioè «di sbieco» (mi scusi la immagine), noi vogliamo guardarla di fronte, come si guardano le cose belle e chiare.
Queste ultime parole possono sembrare letterarie; eppure esse sintetizzano efficacemente il pensiero di Primo de Rivera.
— Guardare la Spagna di fronte –soggiunge– cioè «desde un punto de vista total», da un punto di vista totalitario, che nell’abbracciare tutto il complesso corregga i difetti di visuale di ciascuno. La lotta di classe ignora l’unità della patria e viola, sul terreno economico, il concetto di produzione nazionale. I proprietari e gli operai si tiranneggiano alternativamente. Nei periodi di crisi di lavoro sono i primi che abusano dell’operaio, in quelli di lavoro intenso o quando le organizzazioni operaie sono molto forti, questi abusano dei proprietari. Né gli uni né gli altri si rendono conto che sono dei collaboratori nell’opera complessiva della produzione nazionale, e che ciò impone a ciascuna categoria doveri e limitazioni precise.
— Il vostro concetto dello Stato?
— Ve l’ho detto: mettiamo lo Stato al di sopra delle rivalità regionali, delle divergenze fra i partiti e delle lotte di classe. Non lo concepiamo come un semplice custode dell’ordine, senza idee proprie né finalità elevate, e tanto meno come uno strumento di tirannia e di pressione di una classe sull’altra. Né Stato indifferente né Stato classista. Uno Stato di tutti, in cima del quale non sia che l’idea permanente della Spagna. Soppressione dei partiti politici, poiché crediamo alla famiglia, al municipio, al sindacato, entità nel seno delle quali l’uomo nasce, si educa, produce, vive, ma non già al partito, cosa artificiale e senza alcun nesso con la vita profonda dei popoli. Perciò il nostro Stato sarà edificato su delle autentiche realtà vitali, cioè sulla famiglia, sul municipio e sul sindacato. Esso dovrà riconoscere e rispettare l’integrità della famiglia come unità sociale, la autonomia del Municipio come unità territoriale, e il Sindacato e la Corporazione come base dell’organizzazione totale dello Stato. Esso non si inibirà di fronte alla lotta per la vita che sostengono gli uomini. Non lascerà che ciascuna classe faccia a suo modo per liberarsi dal giogo impostogli dall’altra o per tiranneggiarla a sua volta. Considererà come fini propri quelli di ciascuno dei gruppi che lo integrano e veglierà, come per la propria sicurezza, per gli interessi di tutti.
Chiara, precisa, definitiva la enunciazione. Domando ora a Primo de Rivera quali siano le caratteristiche del movimento che egli dirige nei confronti del fascismo italiano.
L’esempio dell’Italia
— Il fascismo italiano –mi risponde pronto– non può essere copiato. Lo affermò il vostro Duce. Né il fascismo pretende d’essere copiato in tutto, né esso può impedire che altri paesi adottino la sua dottrina.
In questo sta l’irraggiamento spirituale del movimento mussoliniano. In ogni paese il fascismo assume caratteristiche e stile propri, che sono l’elemento circostanziale e locale il quale circonda l’essenza permanente ed unica del movimento. Ma il fascismo italiano ha il merito primordiale di essere stato il precursore; perciò come esempio e come dottrina deve influire enormemente su tutti i movimenti del medesimo tipo sorti e da sorgere in Europa.
— Crede positivamente possibile uno Stato Fascista, con ciò che esso significa disciplina, di sacrificio degli interessi individuali, di rinunzia alle comodità e agli individualismi in un paese come la Spagna?
— Sicuramente –mi risponde– Non nego che quella a cui voi accennate sia una delle nostre caratteristiche di razza. Ma ve ne sono altre, come «il senso della impresa comune», che non sono certo incompatibili (e sono tipicamente spagnole: basta ricordare vagamente la nostra storia imperiale e missionaria), con la disciplina ferrea che è la base del fascismo. Anche l’Italia –ritorce non senza una punta di malizia– era un paese ritenuto «individualista» ed anarchico, eppure!
Gli chiedo di dirmi ciò che egli pensa del movimento hitleriano, di certi suoi aspetti che hanno sollevato la censura e la riprovazione degli ambienti cattolici e degli stessi nazionalisti spagnoli.
Ricostruire la Nazione
— L’hitlerismo –mi risponde– ha alcuni principi essenziali che coincidono coi nostri, ma ha delle caratteristiche germaniche e luterane che evidentemente non s’inquadrano nella idea romana dell’universalità e neppure in quella spagnola, e questi principi si riassumono nella parola «racismo». Non può assolutamente essere accettato da nessuna mente spagnola, educata alla secolare tradizione della civiltà come fatto spirituale, come dignificazione elargita o imposta all’uomo anche più lontano da noi nelle sue particolarità fisiche o biologiche, il rigido criterio esclusivista dei razzisti tedeschi. Consideriamo il criterio dell’arianesimo, della purità della razza, seguito da Hitler in Germania, non solo come una ingenuità scientifica, ma altresì come una autentica negazione di ciò che costituisce l’essenza stessa della civiltà cristiana e dell’imperialismo spagnolo; che è un imperialismo di crociata, e appaia, se non identifica, il concetto missionario. (Penso, udendo queste parole, a Isabella la Cattolica, che, più spagnola del suo mediocre sposo, Fernando, armò le caravelle di Colombo avendo di mira, non la conquista di grandi domini, ma «la salvazione di tante anime»). Uno spagnolo –continua Primo de Rivera– non considererà mai ripugnante sposare una ebrea e si preoccuperà, se mai di convertirla; terrà a gloria l’annettere alla sua comunità una razza diversa, e non l’averla esclusa. Insomma, per il nostro fascismo, la parola «razza» non è e non sarà mai una barriera.
Non è solo in questa fisionomia spirituale ben accusata, che il concetto ispanico di Primo de Rivera si avvicina a quello mussoliniano, ben più di quanto si avvicini all’hitlerismo; il giovane capo delle falangi spagnole tiene ad aggiungermi, con parole che presentano una strana coincidenza con quelle recenti di lord Alfredo Mosley che il fascismo spagnolo, pur considerando la violenza in certi casi come una santa necessità, pur essendo disposto e risoluto anzi a conquistare al momento decisivo il potere per la via della violenza, non ammette persecuzioni, non è, nella sua natura propria, violento. Gli eccessi che si sono prodotti in Germania, certe misure pseudoscientifiche, come quella della sterilizzazione, sono risolutamente sconfessate da Primo de Rivera, il quale non riconosce che un maestro, il Duce, un esempio, quello dell’Italia, una guida, la tradizione spagnola.
E con queste parole la breve intervista è conchiusa; io ho riappeso il microfono ed il lontano «cortijo» andaluso si è dileguato come per virtù di magia. Dinanzi a me, ancora, squinternato sul tavolo, è l’ultimo numero dell’organo socialista madrileno, tutto stillante odio ed irreprimibili rancori, pieno d’insulti, di minacce, di auguri catastrofici, di incitazioni all’assassinio contro semplici conferenzieri e scrittori di destra, con nome e cognome del «bersaglio» raccomandato; nessuna preoccupazione nazionale, nessuna idealità, null’altro che sfoghi di vendetta, ansia di dominio e di oppressione. Uno spirito del resto, poco dissimile da quello che anima «gente d’ordine» che in questi giorni disdice in massa l’abbonamento al Debate perché delusa dalla scarsa energia mostrata dalle destre contro gli «scalzacani»!
È in questa povera e grande Spagna dilaniata da antichi ma terribili egoismi di parte e di classe che il manipolo di giovani capeggiati da Primo de Rivera ha intrapreso la sua difficile crociata. Obiettivo: fare di questo paese una nazione. Quand’anche non vi riuscisse che in parte, quando non rimanesse che un tentativo, uno sforzo così nobile non sarà mai stato sterile.
Ricardo Forte
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El programa del fascismo español expuesto por su jefe Antonio Primo de Rivera
Suprimir los separatismos locales, los partidos y la lucha de clases. Edificar el Estado basado en la familia, el municipio y los sindicatos. La irradiación mussoliniana.
Madrid, abril.
Es difícil, cuando se dispone de un teléfono en la mesa, resistir a la tentación de molestar con una llamada, quizá inoportuna pero valiosa para un periodista, a un alto personaje del momento, con el que realizar, de punta en blanco y sin preaviso, una charla de actualidad. Difícil, sobre todo, cuando se discute el porvenir inmediato de España; país que, en los próximos meses, quizá en las próximas semanas, tendrá que decidir su destino; y, cuando el entrevistado no es un graduado de la política parlamentaria, cargado de pasado, unido por conveniencias y por pactos y que se ve en la necesidad, la más de las veces, de «parler pour ne rien dire», sino un hombre de corazón, un joven bueno y lleno de idealismo, un espíritu elegido, un noble según las mejores tradiciones de la raza y de la civilización castellana, como José Antonio Primo de Rivera, primogénito del Presidente del Directorio, abogado de probado talento y diputado independiente en las Cortes, con sólo treinta años.
Contra la derecha y contra la izquierda
La calificación que él se dio de «independiente», en esta España dudosa entre opuestas concepciones sociales y políticas y a la que se ofrecen, por un lado y por otro, las fórmulas rígidas y prohibidas de la derecha y de la izquierda, es todo un programa, –negativo. (Suscitó sorpresa el hecho de que, poco después de las elecciones, el hijo del dictador escogiera en las Cortes un escaño situado en un sitio neutro, lejos del bloque de las derechas y más bien cerca del sector socialista. Primo de Rivera deja de buena gana el grupito de los carlistas y de los alfonsinos y el grupo económico de los agrarios, que defienden los intereses de los terratenientes, y representa el papel de abogado del diablo frente a la obra reformadora de la República). Y, para conocer la parte positiva de su programa y las características que distinguen el movimiento fascista que él dirige, lo fui a molestar a su tranquila casa de Jerez, a mil kilómetros de aquí.
Una entrevista telefónica prescinde de los elementos coloristas que, adornando el diálogo, hacen pesado, a veces, su desarrollo. No puedo, sin embargo, no aludir a la personalidad de Primo de Rivera, al que ya conozco desde Madrid. Físicamente, su parecido con el padre es extraordinario; solamente una sonrisa más femenina, algo más de dulzura en la mirada, que se puede atribuir incluso a la edad, una frente amplia y serena, que nos habla de recogimiento, elevación espiritual, tenacidad y dedicación a una causa, donde el insigne «caudillo» mantenía en la mirada y en la expresión el duro carácter militar; éste es el rasgo distintivo que buscaba y esto es lo que mi interlocutor no tiene; el tono, inconfundible del padre, del tradicional general español, del hombre de acción, de prestigio y de decisión, pero también de las ideas simples y esquemáticas. Primo de Rivera tiene una preparación civil y una cultura que le faltaban al padre. Lo que el difunto marqués de Estella «veía» con la intuición y la sensatez aproximada del soldado, se define en la mente de su heredero en proporciones claras y precisas. De aquí también una menor eficacia de los medios de expresión, obstaculizados por un temperamento escrupuloso y por una intuición fulminante, lo que no impide que Primo de Rivera sea una persona preparadísima y que pueda llegar a ser un hombre de gobierno.
No puedo, pues, describir el «ambiente» de la entrevista; no veo, pero me lo imagino, el «cortijo» jerezano del joven diputado, el grato y suave ambiente del campo andaluz, entre las espirales melancólicas y melodiosísimas del «cante jondo», que se pierden allá abajo a lo lejos, con un fondo de olivos nudosos y de vides; vida hecha de pasión y de fatalismo, empastada de misticismo un poco sensual y de una caballerosidad que no es la de las leyendas medievales nórdicas. Veo al marqués de Estella así, entre campesinos que lo idolatran, entre paisanos que creen en él, en el seno de la familia que lo adora, proyectando su figura noble y amable sobre un paisaje de lóbrega tragedia social; veo y temo… ¿Estará el joven patriota, el fundador del movimiento que se propone redimir a España de la tiranía de las Cámaras de Trabajo [sic], a la altura de la misión que su juvenil figura aureolada ya de un encanto de epopeya romántica? Cada país tiene sus costumbres psicológicas y su idiosincrasia y, quizá lo que a mí me parece algo que inspira reservas en el terreno práctico, quiero decir, la finura aristocrática de este jefe y su acento de suprema distinción en contraste con la rústica apariencia padre, no es un «handicap» en la tierra de Santa Teresa; recordemos que aquí, en este país empapado de gloriosa historia, que tuvo su época de mayor esplendor cuando todo el resto de Europa estaba por nacer a la historia y que la misma violencia facinerosa es raramente ciega. Y entiende mal el temperamento local, el extranjero que, observando un escrúpulo imprevisto en una turba de incendiarios, corre a telegrafiar a su periódico la palabra «opereta».
Paisaje de tragedia social
Permítanos el joven jefe de las «Falanges españolas» [sic], movimiento que tuvo ya sus mártires y que, sólo en Madrid ofreció el sacrificio de numerosas vidas, anotar el contraste entre su aparente timidez, fruto quizá de la austeridad de la vida y de la energía y el valor del que él mismo dio prueba saliendo a la calle cada vez que, en estos trágicos albores de una reacción nacional, uno de los suyos había sido amenazado o agredido. Contraste que pone de relieve su firmeza espiritual. Sólo, sin armas, Primo de Rivera realizó su propaganda electoral en pueblos remotos dominados por el comunismo y la anarquía; hace pocos días, su figura ascética aparecía en medio de la batalla provocada en un cruce de Madrid por el grupito de «jóvenes socialistas» de siempre, que agredió y asesinó de manera deliberada y sin la mínima provocación, al jefe de los vendedores del órgano de las «Falanges» [sic], F. E.
«Mirar a España de frente»
Y, ahora, me parece que llegó el momento de dar la palabra al personaje que les presenté tan sumariamente. Contestó con gran amabilidad a mi llamada, accediendo de buen grado al deseo que le comenté de hacerle una entrevista.
— Nuestro programa es simple –me dice–; consiste en suprimir los tres factores de disgregación de la España actual: los separatismos locales, los antagonismos entre los partidos y la lucha de clases. De estas tres fuerzas negativas, ustedes, los italianos conocen la última; no la primera, que es, por desgracia, un privilegio nuestro. Nuestro común amigo Giménez Caballero habló de la República «como asunto catalán»; podemos decir, manteniéndonos en guardia de las definiciones demasiado absolutas, que el movimiento revolucionario español se distinguió de los análogos que se realizaron con gran antelación en otros países de Europa, que nos mandan con retraso sus modas, por su carácter separatista y local. Desde la Revolución Francesa en adelante, los ideales liberales se realizaron mediante una obra de unificación y, hasta se le reprochó al liberalismo político del siglo diecinueve el hecho de ser, por esencia, centralizador. Nuestra República tenía que jactarse de estimular el catalanismo, fenómeno regresivo y, yo diría, medieval.
— ¿En qué se diferencia –pregunto– su movimiento de los demás partidos políticos españoles?
— En esto, querido señor: que mientras tales partidos se obstinan en mirar a España desde un único punto de vista, es decir, «de reojo» (perdóneme la figura), nosotros queremos mirarla de frente, como se miran las cosas hermosas y claras.
Estas últimas palabras pueden parecer literarias; y, sin embargo, sintetizan eficazmente el pensamiento de Primo de Rivera.
— Mirar a España de frente –añade– es decir, «desde un punto de vista total», desde un punto de vista totalitario que, al abrazar a todo el conjunto, corrija los defectos visuales de cada uno. La lucha de clases ignora la unidad de la patria y profana, en el terreno económico, el concepto de producción nacional. Los propietarios y los obreros se tiranizan alternativamente. En los periodos de crisis de trabajo, son los primeros los que abusan del trabajador y en los periodos de trabajo intenso, o cuando las organizaciones obreras son muy fuertes, éstos abusan de los propietarios. Ni los unos ni los otros se dan cuenta que son colaboradores en la obra total de la producción nacional, y que esto impone a cada categoría deberes y limitaciones precisas.
— ¿Su concepto del Estado?
— Se lo di ya: Ponemos al Estado por encima de las rivalidades regionales, de las divergencias entre los partidos y de las luchas de clase. No lo concebimos como un simple guardián del orden, sin ideas propias ni finalidades elevadas ni, menos aún, como un instrumento de tiranía y de presión de una clase sobre otra. Ni Estado indiferente ni Estado de clases. Un Estado de todos, sobre el cual no haya más que la idea permanente de España. Supresión de los partidos políticos, porque creemos en la familia, en el municipio y en el sindicato, entidades dentro de las que el hombre nace, se educa, produce y vive, pero no ya en el partido, cosa artificial y sin ningún nexo con la vida profunda de los pueblos. Por eso nuestro Estado se construirá sobre las auténticas realidades vitales, es decir, sobre la familia, sobre el municipio y sobre el sindicato. El estado tendrá que reconocer y respetar la integridad de la familia como unidad social, la autonomía del Municipio como unidad territorial y el Sindicato y la Corporación como base de la organización total del Estado. Éste no se inhibirá frente a la lucha por la vida que sostienen los hombres. No dejará que cada clase actúe a su modo para librarse del juego que le impone la otra o para tiranizarla a su vez. Considera como fines propios los de cada uno de los grupos que lo integran y vigilará, por la propia seguridad y por los intereses de todos.
Clara, precisa y definitiva la exposición. Entonces pregunto a Primo de Rivera cuáles son las características del movimiento que él dirige comparándolas con el fascismo italiano.
El ejemplo de Italia
— El fascismo italiano –me contesta rápidamente– no puede copiarse. Lo afirmó el Duce. Ni el fascismo pretende ser copiado totalmente, ni puede impedir que otros países adopten su doctrina.
En esto reside la irradiación espiritual del movimiento mussoliniano. En cada país el fascismo asume características y estilos propios, que son el elemento circunstancial y local que rodea la esencia permanente y única del movimiento. Pero el fascismo italiano tiene el mérito primordial de haber sido el precursor; por lo tanto, como ejemplo y como doctrina debe influir enormemente en todos los movimientos del mismo tipo que nacen y que nacerán en Europa.
— ¿Cree positivamente posible un Estado Fascista, con todo lo que esto implica de disciplina, de sacrificio de los intereses individuales, de renuncia a las comodidades y a los individualismos en un país como España?
— Seguramente –me contesta–. No niego que aquella a la que usted alude, sea una de nuestras características de raza. Pero tenemos también otras, como «el sentido de la empresa común», que no son ciertamente incompatibles (y que son típicamente españolas: baste recordar vagamente nuestra historia imperial y misionera), con la disciplina férrea que es la base del fascismo. También Italia –vuelve a decir, no sin una punta de malicia– se consideraba un país «individualista» y anárquico, ¡y sin embargo…!
Le ruego que me diga lo que piensa del movimiento hitleriano, de ciertos aspectos que originaron la censura y la reprobación de los ambientes católicos y de los mismos nacionalistas españoles.
Reconstruir la Nación
— El hitlerismo –me contesta– tiene algunos principios esenciales que coinciden con los nuestros, pero tiene características alemanas y luteranas que, evidentemente, no se encuadran en la idea romana de universalidad y, ni siquiera, en la española y estos principios se resumen en la palabra «racismo». Ninguna mente española, educada en la secular tradición de la civilización como hecho espiritual, como dignificación otorgada o impuesta al hombre, incluso al que más se diferencie de nosotros en sus particularidades físicas o biológicas, puede aceptar absolutamente el rígido criterio exclusivista de los racistas alemanes. Consideramos el criterio del arianismo, de la pureza de la raza, seguido por Hitler en Alemania, no sólo como una ingenuidad científica, sino como una auténtica negación de lo que constituye la esencia misma de la civilización cristiana y del imperialismo español; que es un imperialismo de cruzada, y que aparece unido, si no se identifica, con el concepto misionero. (Pienso, oyendo estas palabras, en Isabel la Católica que, más española que su mediocre esposo Fernando, armó las carabelas de Colón teniendo como objetivo, no la conquista de grandes dominios, sino «la salvación de tantas almas»). Un español –continúa Primo de Rivera– no considerará repugnante nunca casarse con una judía y se preocupará, en tal caso, de convertirla; tendrá a gloria añadir a su comunidad una raza distinta, y no excluirla de ella. En resumidas cuentas, para nuestro fascismo, la palabra «raza» no es, y no será nunca, una barrera.
No es sólo en esta fisonomía espiritual bien acusada, en la que el concepto hispánico de Primo de Rivera se aproxima al mussoliniano mucho más de lo que se acerca al hitlerismo; el joven jefe de las Falanges españolas [sic] desea añadir, con palabras que presentan una extraña coincidencia con las que pronunció recientemente lord Alfredo Mosley, que el fascismo español, aunque considera la violencia en ciertos casos como una santa necesidad, aunque está dispuesto y resuelto a conquistar en el momento decisivo el poder por la vía de la violencia, no admite persecuciones y no es, en su naturaleza propia, violento. Los excesos que se produjeron en Alemania, ciertas medidas pseudocientíficas, como la de la esterilización, no los acepta Primo de Rivera, quien no reconoce más que un maestro, el Duce, un ejemplo, el de Italia y una guía, la tradición española.
Y con estas palabras la breve entrevista se termina; colgué el micrófono y el lejano «cortijo» andaluz desapareció como por arte de magia. Ante mí, todavía desdoblado en la mesa, está el último número del órgano socialista madrileño, destilando odio e irreprimibles rencores, lleno de insultos, de amenazas, de deseos catastróficos y de incitaciones al asesinato de simples conferenciantes y escritores de derechas, con los nombres y apellidos del «blanco» recomendado; ninguna preocupación nacional, ningún ideal, nada más que desahogos de venganza, ansia de dominio y de opresión. Un espíritu, por otra parte, poco diferente del que anima a la «gente de orden» que, estos días, revoca en masa la suscripción a El Debate ¡porque se desilusionó de la escasa energía mostrada por las derechas contra los descamisadosa!.
Y es en esta pobre y gran España, destrozada por antiguos y terribles egoísmos de partido y de clase, en la que la tropa de jóvenes capitaneados por Primo de Rivera empezó su difícil cruzada. Objetivo: hacer de este país una nación. Y aunque no lo lograse más que en parte, aún cuando no fuera más que un intento, un esfuerzo tan noble no habrá sido estéril.
Ricardo Forte